Testi di Claudio Spadola

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In occasione del Centenario del 2022 organizzato con l'Università Sapienza Roma, DAMS Roma Tre e con la partecipazione di Franco Ruffini e altri maestri, Claudio Spadola offre in omaggio (anche a Mejerchol'd che l'ha creata) il suo Ipertesto sulla Biomeccanica Teatrale.
Il sito, a cui quest'ultimo link porta, contiene video e immagini e vuole offrire un'esperienza iperattiva simile a quella tra allievo e maestro con tutti i vantaggi della lettura di un libro. I principi e gli esercizi vengono dettagliatamente spiegati e i molti link interni permettono ad ogni fruitore di approfondire e tornare alla spiegazione di base.
Il sito dell'Ipertesto sulla Biomeccanica Teatrale contiene solo degli estratti dall'ipertesto integrale di Claudio Spadola del quale si può chiedere la condivisione scrivendo a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

Sulla biomeccanica di Mejerchol’d abbiamo in Italia pochissimi studi e nessuno sulla parte tecnica.
Nel migliore dei casi [1] si ha una raccolta di scritti dello stesso Mejerchol’d con introduzione che, 
pur se utilissima, rimane sempre confinata nell’ambito di una sintesi teorica e di uno studio storico.
Oltre al mio lavoro d’insegnante della pratica con gli attori, anche come studioso il mio lavoro ha lo scopo di cominciare a riempire questa lacuna rimandando comunque e sempre alla verifica sul campo.
Qui vengono riportati degli estratti o elaborazioni di alcuni miei testi [2] dove, oltre a uno studio storico e teorico della biomeccanica di Mejerchol’d (compresi alcuni accenni all’estetica, all’antropologia teatrale e a interessanti supporti scientifici alla biomeccanica), si da largo spazio alla descrizione della tecnica pura. Testi che costituiscono, quindi, una sorta di manuale pratico di esercizi ed études che ho avuto la fortuna di apprendere nel 1996 e 1997 in Italia ma soprattutto nell’a.a. 1997/98 al GITIS di Mosca e nei vari anni successivi di assistenza e collaborazione con i miei maestri. 
Colgo l’occasione per ringraziare Gennadi Bogdanov e Nikolai Karpov, che hanno dato un apporto sostanziale allo sviluppo del mio lavoro attuale di regista e insegnante.
                                                                                                            Claudio Spadola

 1) Elaborazione da:

C. Spadola, Lezioni di Biomeccanica al GITIS di Mosca.
L’eredità pedagogica di Vsevolod E. Mejerchol’d
,

in "Biblioteca Teatrale", Roma, Bulzoni, 7-12/2000.

2) Estratti da:
C. Spadola, Biomeccanica teatrale e movimento scenico. Training ed esercizi.
Seminario condotto da Nikolai Karpov e Claudio Spadola al
Centro Universitario Teatrale di Perugia dal 5/10/1998 al 17/10/1998.
Materiali raccolti e curati dall’autore.

3) Estratti da:
C. Spadola, Biomeccanica e movimento scenico.
Lezioni di Gennadi Bogdanov e Nikolai Karpov al GITIS di Mosca
. A.a. 1997-98.

Materiali raccolti e curati dall’autore.

4) Estratti da:
C. Spadola, La Biomeccanica di Mejerchol’d
e i suoi recenti sviluppi al GITIS di Mosca
,

tesi di laurea discussa all’Università di Roma “la Sapienza” nell’a.a. 1995/96,
relatore Prof. Luciano Mariti, correlatore Prof. Elena Tamburini.

5) Estratti dal saggio di C. SPADOLA, Biomeccanica Teatrale. L’inaspettato della vita nella meccanica della recitazione. Manuale per attori e non solo, Roma, P.A.T.S., 2015, sono in COSA CI DIFFERENZIA DALLE ALTRE SCUOLE DI RECITAZIONE

[1] V.Mejerchol’d, L’attore biomeccanico, Milano, Ubulibri, 1993.
[2] Tutti i testi qui riportati sono tutelati e ne è vietata la riproduzione anche parziale. Le sottolineature, l’evidenziazione in blu e le note tra parentesi, ove non specificato, sono dell’autore. Le note a piè di pagina come il numero delle pagine è continuo e non tiene conto dei vari tagli fatti all’interno dei testi. Alcuni riferimenti risulteranno quindi errati. Per la completezza ed esattezza dei riferimenti si rimanda alle stesure originali ed integrali dei testi.

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1) Elaborazione da:
    C. Spadola,
Lezioni di Biomeccanica al GITIS di Mosca.
    L’eredità pedagogica di Vsevolod E. Mejerchol’d
,
    in "Biblioteca Teatrale", Roma, Bulzoni, 7-12/2000.

Non è facile superare quella tecnica che come un pesante fardello ci portiamo sulle spalle perché non abbiamo una scuola, una vera scuola teatrale, perché all’insegnamento si dedicano solo gliattori o i registi che, prendendo parte attiva alla vita teatrale, dedicano alla scuola solo i lororitagli di tempo. Certo, in queste condizioni le difficoltà da affrontare sono immense. Quando ci saranno gli istituti pedagogici (teatrali) e molti esperti tecnici abbandoneranno il teatro e si dedicheranno, forse, per interi decenni esclusivamente alla scuola, allora forse otterremo qualche risultato. Adesso un caporale qualsiasi prende la bacchetta e dirige le sorti del teatro, perché inquesto senso noi non siamo arrivati a un accordo.

                                                                                          V.E. Mejerchol’d

Camminando d’inverno per le vie di Mosca, con il ghiaccio che costantemente lastrica i marciapiedi, ci si rende conto concretamente della dinamica con la quale V.E.

Mejerchol’d (1874-1940) ha scoperto la legge fondamentale del movimento.
Egli racconta di essere scivolato per la strada e di aver dovuto fare contrappeso con tutto il corpo per non cadere [1] . Il fenomeno è banale ma l’aspetto importante dell’episodio in questione è che il protagonista è riuscito ad esserne testimone durante lo svolgimento o, comunque, si è fermato subito dopo l’accaduto, ha ascoltato la sensazione che ancora pervadeva tutto il suo corpo e, a “memoria fresca”, ha scoperto qualcosa che il suo corpo sapeva già fare “istintivamente” e con precisione, in mancanza di comando e di controllo della mente.
Istintivamente? Eppure non siamo nati sapendo stare in equilibrio su due piedi, né sapendo camminare, l’abbiamo appreso e assimilato come una “seconda natura”.
Non si tratta allora di istinto ma di riflesso. Il corpo, una volta che ha “memorizzato” un’abilità, è già in grado di seguirla automaticamente (di riflesso) senza l’ausilio della coscienza. Lo facciamo normalmente quando camminiamo: non pensiamo alla meccanica dei nostri movimenti, dobbiamo solo stare attenti a dove mettere i piedi.
Inseriamo una sorta di macchinista automatico, e lo stacchiamo solo di fronte a un imprevisto; allora ritorniamo ai comandi e riorganizziamo la meccanica motoria del nostro corpo in funzione del cambiamento (per esempio, un ostacolo da superare).
Da tutto questo prende forma la biomeccanica, cioè dal riflesso, divenuto spontaneo, di preservazione dell’equilibrio e dalla coscienza della sua perdita e di tutti i movimenti che il corpo fa per recuperarlo. In altre parole, dalla precisione di esecuzione, da parte del corpo, di una partitura assimilata e dall’ascolto testimoniale (quello che Mejerchol’d chiamava “lo specchio interiore”, “il terzo occhio”), cioè dall’attenzione della mente verso tale esecuzione (attenzione che è, quasi sempre, un atto volitivo, un atto, cioè, che nella vita, tranne in casi particolari [2] , dobbiamo decidere di fare, e che normalmente tendiamo ad evitare affidandoci all’automatismo).
I primi esercizi di biomeccanica proposti dagli insegnanti del GITIS [3] , Gennadi Bogdanov e Nikolai Karpov, sono proprio esercizi di scomposizione dell’atto del “camminare”, per recuperare un controllo (che con l’allenamento diventerà solo un’attenzione, una “sensazione”) di qualcosa che abbiamo automatizzato e oramai diamo per scontato. Solo allora potremo passare sempre più velocemente attraverso i “punti” di riferimento della scomposizione (come un treno che va da Roma a Firenze senza fermarsi nelle stazioni intermedie pur passandoci e vedendole chiaramente) e ridare all’azione, divenuta consapevole, la fluidità originaria [4].
Se tutto questo lavoro può rimanere estraneo alla vita di una persona comune, esso è indispensabile per l’attore, che dovrà imparare a camminare di nuovo come se rinascesse a un’altra vita, quella del teatro [5].
La biomeccanica è un doppio allenamento. Del corpo, per acquisire assetto ottimale, coordinazione, rapidità di reazione, sempre maggiore abilità e “memoria” fisica; e della mente per acquisire “vigilanza costante” o “attenzione” [6] , colpo d’occhio (rapidità a comprendere gli imprevisti e, a seconda del repertorio delle abilità fisiche acquisite, a scegliere quelle ottimali per affrontarli), orientamento in rapporto allo spazio e al tempo (senso del ritmo musicale che dà i punti di riferimento ed è fattore di organizzazione del movimento).
Questo processo, però, non implica due fasi di lavoro separate, è un allenamento contemporaneo del corpo e della mente. Ogni esercizio biomeccanico educa la nostra struttura mentale e corporea allo stesso tempo, fino a farci acquisire una “seconda natura” di tutto il nostro essere (“corpo-mente”), grazie alla quale saremo sempre pronti a reagire efficacemente e di riflesso. Riuscire a «pensare con il corpo» o a «respirare col cervello» [7].
Prima di descrivere gli esercizi e gli études, che sono l’essenza del “sapere” biomeccanico condensato in partiture di azioni fisiche, si analizzeranno i punti teorici fondamentali, i principi tecnici operativi a cui Gennadi Bogdanov e Nikolai Karpov fanno continuo riferimento durante le loro lezioni e su cui vale la pena di soffermarsi.

[1] Cfr. B. Picon-Vallin, Meyerhold, Parigi, CNRS, «Les voies de la création théâtrale», 17, 1990, p.106.
La traduzione è mia così come tutte le traduzioni di testi inediti in italiano che si troveranno nel corso del saggio.
[2] Come in caso di pericolo o in quei particolari «stati di grazia» in cui «ci viene» da fare tutto «conforme al conseguimento dello scopo con assoluta e immediata precisione, e senza averne, al ricordo che segue, chiara consapevolezza. ‘Non eravamo noi ad agire – ci diciamo – le azioni si sviluppavano senza sforzo e senza che ci fosse stato tempo o volontà di programmarle’».
F. Ruffini, Precisione e corpo-mente. Sul valore del teatro, in «Teatro e Storia», n. 15, VIII, 2, 1993, p. 233, che cita il famoso saggio sulla marionetta di Kleist. Lo studio di Ruffini, attraverso la metafora del campo minato, fornisce gli strumenti per capire in maniera chiara l’“emozionante equilibrio dell’attore biomeccanico” e tutte le fasi del suo apprendimento, che descriverò più oltre nell’ultimo paragrafo.
[3] G.I.T.Is.: Gosudarstvennyj Institut Teatral’nogo Iskusstva (Istituto Statale d’Arte Teatrale).
[4] “Nulla è più difficile che camminare” affermava Barrault impegnato con Decroux, attraverso il mimo, a ricreare e non ad imitare quelle leggi che si riscontrano nell’agire dei fenomeni della vita.
“Superare la segmentazione e la meccanicità” analitica per ritrovare nella nuova fluidità ricreata “la temperatura, la coloritura, il profilo individuale”. Cfr. E. Barba – M. De Marinis, Due lettere sul pre-espressivo dell’attore, in “Teatro e Storia”, n.16, IX, 1994, pp. 242-243 e il libro di M. De Marinis Mimo e teatro nel Novecento, Firenze, La Casa Usher, 1993, pp. 98-104, dove si apprende che Decroux ha continuato fino alla fine a ricercare camminate, ben 250. Rimandiamo anche a ”la camminata a volo” descritta da Stanislavskij nel capitolo la Plastica (in versione integrale e fedele all’originale solo nell’edizione russa) in K. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, Bari, Laterza, 1975, p. 435.
[5] Ricordando che Mejerchol’d definiva la reazione dell’attore al termine di un’azione «estasi delle gambe» e«affermava di riconoscere il talento di un attore dal dinamismo con cui poggiano sul terreno i piedi», Barba nota: «In tutte le forme codificate di rappresentazione si ritrova questo principio costante: una deformazione della tecnica quotidiana di camminare, di spostarsi nello spazio, di tenere il corpo immobile. Questa tecnica extra-quotidiana si basa su una alterazione dell’equilibrio. La sua finalità è un equilibrio permanentemente instabile. Rifiutando l’equilibrio «naturale» l’attore interviene nello spazio con un equilibrio «di lusso»: complesso, apparentemente superfluo e che costa molte energie», una danza dell’equilibrio. E. BARBA, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 40, 36. Un esempio può essere proprio la marche sur place su cui si appassionarono Decroux e Barrault; cfr. M. De Marinis,Mimo e teatro nel Novecento, cit., pp. 99 – 100.
[6] F. Ruffini lo definisce anche “controllo potenziale”; che è diverso dal “controllo esecutivo” di ogni movimento. Quest’ultimo controllo, infatti, comporta lo “sforzo”, tipico della prima fase di ogni apprendimento corporeo. Cfr. F. Ruffini, Precisione… cit., p. 225-226.
[7] «Niente è possibile a meno che il corpo sia reso un veicolo perfetto, cosicché l’energia abbia il permesso di suonarvi liberamente attraverso. Inoltre, le leggi che regolano il corpo sono universali, hanno a che vedere con dinamica, equilibrio ed economia; esse governano tutta l’azione e tutte le strutture in natura, dal nido d’api al volo d’uccello. L’esterno e l’interno sono inseparabili, e le nostre prigioni psicologiche e fisiologiche devono spalancare le loro porte le une alle altre il più possibile [...] Mi sorge la domanda: come può una persona essere aiutata a risensibilizzare il proprio corpo, ad esserne conscia in un modo nuovo? Certamente non portandola a pensare ad esso. La risposta si trova in due parole: sentire e permettere. Il corpo è saggio – saprebbe cosa fare se noi fossimo capaci di permetterglielo. Dobbiamo permettergli di insegnarci da dentro, così da poterci risvegliare alla sua sensazione. Per fare progressi in questo dobbiamo cambiare il nostro approccio da “io faccio” a“permettere che sia fatto”. Questo cambiamento di concetto è la chiave per il controllo corporeo. Permettere che il movimento avvenga [...]
Dobbiamo trovare ciò che permette la possibilità di movimento [...]
Nell’eseguire la musica, quando rilasciamo il controllo da noi stessi, la musica può cominciare a parlare attraverso di noi e non a partire da noi». H. Whone, The Integrate Violinist, Londra, Victor Gollancz Ltd., 1976, in particolare i capp. I, II, e V.

2.Le basi teoriche e i principi della biomeccanica

Mejerchol’d presentò ufficialmente la sua biomeccanica nel 1922
riferendosi
al Trattato degli animali di Leonardo da Vinci:

Siccome la creazione dell’attore è creazione di forme plastiche nello spazio, l’attore deve
studiare la meccanica del proprio corpo. Ciò gli è indispensabile, perché qualsiasi
manifestazione di forza (anche in un organismo vivente) è soggetta alle leggi della 
meccanica (e la creazione da parte dell’autore di forme plastiche nello spazio, è
naturalmente una manifestazione di forza dell’organismo umano)[8].

 

Per meccanica s’intende oltre allo studio delle leggi di equilibrio e moto dei corpi, sia in una situazione statica che dinamica, anche lo studio delle leggi di connessione e interazione tra le singole parti di una macchina.

La biomeccanica e tutto il teatro costruttivista, così come Tatlin in pittura e Chlebnikov in poesia, mettono a nudo il materiale della loro creazione.
(...)
“Incorporare” questa catena d’azione è ciò per cui si fanno gli études di biomeccanica.
Ma Mejerchol’d trae, come è noto, le sue basi teoriche anche dalla riflessologia di Pavlov e Bekhteriev e, rompendo con la psicologia francese su cui poggiano il naturalismo e il sistema stanislavskiano, dalla teoria periferica delle emozioni di James [9] . Sergei Ejzenštejn (1898-1948), uno dei primi allievi dello Studio di Mosca (1921-1938) e futuro regista cinematografico di fama internazionale, fu prescelto da Mejerchol’d come suo assistente nell’insegnamento pratico e teorico della biomeccanica per gli studenti più giovani. Dopo aver seguito, nel 1921, presso la Deutsche Filmschule di Monaco diretta da Rudolf Bode…
(...) …lo znak otkaza, concetto mejerchol’diano del 1914 (letteralmente “segno di rifiuto”, uno dei procedimenti d’accentuazione che Mejerchol’d riscontrava in tutte le tradizioni teatrali e che analizzeremo nel paragrafo successivo) [10] .In ogni istante, secondo Ejzenštejn, l’attore non deve solo selezionare l’attrazione scenica ottimale ma anche darle un senso inserendola nella migliore composizione ritmica d’insieme. Il risultato di tutto questo processo è, come affermava lo stesso Mejerchol’d, la capacità di rendere lo spettatore «il risuonatore vivente che risponde a tutte le invenzioni della maestria dell’attore che deve reagire alle reazioni del suo risuonatore attraverso l’improvvisazione» [11].
Lo spettatore, infatti, ripete in modo riflesso e attenuato tutto il sistema di movimenti dell’attore scaricando tutta l’energia muscolare non utilizzata nell’emozione.
E la «riviviscenza, in quanto risultato del movimento espressivo dell’attore, si trasferisce là dove deve stare, vale a dire nel pubblico» [12] .
Nello studio del personaggio, Mejerchol’d, come è noto, oppone all’approccio dall’interno - la riviviscenza stanislavskiana (perezhivanie) - l’approccio dall’esterno (predstavlenie), anche se precisa che la differenza è solo di metodo. In realtà il talento (e si riferisce al famoso attore francese C.B. Coquelin) esperisce sempre un ruolo emozionalmente, mentre la mediocrità rappresenta solamente [13] .
A favore del metodo di “induzione del sentimento”, però, rimane il fatto che l’attore conserva sempre un fondamento ben solido e verificabile: la premessa fisica [14] .
Afferma uno dei più grandi attori di Mejerchol’d, Igor Il’inskij: «Questa è la concezione dell’esterno, l’idea che è parte della catena d’azione. L’idea obbliga l’attore a sedersi in una postura triste, ma è la postura stessa che aiuta a renderlo triste» [15].
«Questo vuol dire che la posizione del nostro corpo nello spazio influisce su tutto ciò che chiamiamo emozione, intonazione della frase, come se ci fosse una scossa nel cervello, dall’interno, e non soltanto nel senso del mondo interiore» [16] - dichiara Mejerchol’d.
Il rakurs, concetto pittorico assunto come principio del sistema biomeccanico, è un modo per sviluppare l’espressività presentando il corpo…
(...)

[8] V. Mejerchol’d, L’attore del futuro, in Id., L’Ottobre teatrale 1918/1919, introduzione a cura di F. Malcovati, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 63.
[9] Com’è noto, James sostituisce alla formula “Vedo un orso, ho paura e tremo”, quella: “Vedo un orso, tremo e ho paura”. A questo proposito può essere interessante ricordare ciò che dice Mejerchol’d: «L’idea deve sempre avere la precedenza, qui ci si può rifare a James. Egli racconta un caso straordinario che noi abbiamo messo in pratica. Un uomo si mise a correre, fingendosi spaventato perché inseguito da un cane. Il cane non c’era, ma egli correva come se ci fosse stato realmente. Mentre l’uomo ‘spaventato dal cane’ correva, sorse in lui un reale senso di paura.
Tale è la natura del riflesso. Un riflesso richiama un altro riflesso. È una peculiarità del sistema nervoso. Cioè: se mi metto nella situazione di un uomo infelice, posso diventare realmente infelice. Perciò non diciamo, come ha fatto una volta il Teatro d’Arte: noi mettiamo in scena uno spettacolo triste, per piacere andate a passeggiare per cantucci bui, raccoglietevi, concentratevi in voi stessi. Noi più semplicemente diciamo: per favore, non ci pensate, non preoccupatevi, costruiremo la messa in scena in modo da suggerirvi gli stati d’animo corrispondenti a quelle situazioni fisiche in cui vi metteremo. Come regista bio-meccanico, io mi preoccupo soprattutto che
l’attore sta bene, che i suoi nervi siano a posto, che abbia un buon umore. Non importa in che spettacolo stiate recitando; siate allegri, non concentratevi troppo perché questo può portarvi alla nevrastenia. Noi diciamo: se vi metto nella situazione di un uomo triste, anche la frase risulterà triste. Io stesso l’ho sperimentato».
V.E. Mejerchol’d, L’Ottobre teatrale... cit., p. 90.
[10] Secondo Ejzenštejn, «questo procedimento tecnico del movimento scenico deve essere semantizzato e svolgere una funzione drammaturgica, quasi che la sintassi diventasse significante. L’otkaz diventa un fondamento tecnico dell’espressività al di là di ogni valore figurativo autonomo».
S. Ejzenštejn, Il movimento espressivo… cit. p. 262 nota 46).
[11] CGALI, 998, 739. GVYRM – 1921/1922 – Corso di “Scienza della scena”, in B. Picon-Vallin, Meyerhold, cit., p. 123. Cfr. F. Ruffini, Teatro e boxe, Bologna, Il Mulino 1994, p. 157, 163 e tutta l’analisi sul saggio di Ejzenštejn nel cap. VI pp. 89-109.
[12] S. Ejzenštejn, Il movimento espressivo, in Id., Il movimento espressivo… cit., pp. 210-211. Nel saggio già citato Susanne Franco ripercorre le affinità tra le ricerche sull’espressività condotte parallelamente in Germania e in Russia: «Ejzenštejn e Tret’jakov ereditano da Mejerchol’d il principio secondo il quale l’attore costruisce espressioni cinetiche degli stati d’animo eseguendo una serie di movimenti organici organizzati attraverso il montaggio e vi aggiungono l’elemento dell’attrazione esercitata sullo spettatore, il quale, a sua volta, vivendo di riflesso il movimento, scarica nella reviviscenza l’energia muscolare inutilizzata .L’elemento che essi ritengono comune sia alla biomeccanica che alla ginnastica espressiva è l’importanza attribuita alla scomposizione dei movimenti scenici in singole forme di movimento successivamente ricomposte per costruire i momenti psicologici. L’espressività del performer, dunque, (l«attrazione» o «senso plastico» come si legge in Bode) non scaturisce dalla reviviscenza né dall’imitazione esteriore di un movimento, ma solo dalla corretta (organica) esecuzione dell’intero processo motorio che ha origine nel baricentro e da lì coinvolge tutto il corpo».
S. Franco, Ginnastica e corpo espressivo… cit., p. 95.
[13] Cfr. E. BRAUN, Meyerhold. A Revolution in Theatre, London, Methuen, 1979, 1995/2, p. 177. Afferma Barba: «Quale che sia l’estetica della messa in scena, deve esserci un rapporto fra la partitura delle azioni fisiche e la«sottopartitura», i punti d’appoggio, la mobilitazione interna dell’attore. È, in altre parole, il problema [pre-espressivo] del corpo-mente: dell’interezza psicofisica dell’azione» (E. BARBA, La canoa di carta…, cit., p.171).
[14] «È più probabile che da [quello che i giapponesi chiamano] un kata [ovvero un «disegno di movimenti», traduzione di quello che era per Mejerchol’d il termine: risunok dvizenij, cioè la «partitura»] ben eseguito ed incorporato si condensi un movimento interiore di quanto non sia probabile il contrario: che da un movimento interiore emerga un kata, un disegno dei movimenti dalla forma e dai dettagli precisi e ripetibili.
Senza precisione del disegno esterno, l’azione non può essere fissata e quindi ripetuta indipendentemente dallo stato d’animo dell’attore. È comprensibile, invece, che le due vie si equivalgano quando l’attore lavora per lo spettacolo cinematografico». Ivi, p.172.
[15] I. IL’INSKIJ, Sam o sebe, Moskva, Iskusstvo, 1962, p. 231. [16] Lezione di Mejerchol’d al GEKTETIM,5 settembre 1932, in V. E. Mejerchol’d, L’attore... cit., p. 105. È interessante riportare ciò che ha notato Barba studiando gli esercizi descritti da M. Cechov nel preziosissimo All’attore (Firenze, La Casa Usher, 1984) che io stesso ho praticato con N.N. Svereva, N. Karpov e I. Klimov al GITIS: «In altre parole, non è l’energia a farci scoprire la sua fonte, ma al contrario è immaginare il luogo del corpo in cui tale fonte è situata che ci permette di pensare l’energia, di sperimentarla come qualcosa di materiale […] immaginare la fonte precisa dalla quale si irradia l’energia, vuol dire crearsi una resistenza […] stabilire distinti tipi di resistenza attraverso cui lo stesso disegno del movimento acquisisce diverse temperature d’energia ([…] modellare, fluttuare, volare, irradiare per Michail Cechov) […] è un principio-che-ritorna». E. BARBA, La canoa… cit., pp. 116, 118-19.
Troveremo il principio della “resistenza” del materiale di lavoro dell’attore più oltre, nel sottoparagrafo L’equilibrio degli opposti e la resistenza del materiale.

3. L’eredità pedagogica di Mejerchol’d. La pratica del GITIS di Mosca.


Nonostante la definizione ufficiale della biomeccanica sia del 1922, sin dal I Studio di Pietroburgo, in Via Borodinskaja (1913-1917) Mejerchol’d, che allora insegnava tecnica dei movimenti scenici, lavorò alla creazione di un sistema di allenamento psicofisico per l’attore, ricavato dalla selezione e studio delle tradizioni autenticamente teatrali nel mondo e in tutte le epoche (dalla commedia dell’arte al teatro Kabuki), tradizioni i cui procedimenti tecnici contengono anche un codice estetico.
Quindi, anche se il punto di partenza è la scomposizione scientifica e razionale del movimento lavorativo, egli non perde mai di vista lo scopo principale dell’attore, il movimento espressivo. Situazioni e comportamenti delle tradizioni autenticamente teatrali sono l’ambito in cui si ritrovano e si continuano ad applicare i principi scientifici scoperti. Così nascono gli esercizi e gli études di biomeccanica. Mejerchol’d designò gli études come un complesso intreccio d’informazioni fisiche. Ad un occhio superficiale possono sembrare semplici, ma i principi essenziali del movimento scenico espressivo sono codificati e iscritti nella loro partitura. Biomeccanica è memoria psicofisica.
Ogni étude contiene tutte le necessarie informazioni di un movimento di base esemplare [17] .
Nikolai Kustov, insegnante di biomeccanica di Mejerchol’d 1928-38, ridiede vita agliétudes a Mosca negli anni Settanta.

Essendo ancora vietato, allora, menzionare la parola biomeccanica, cominciò ad insegnarli
il meno possibile. All’inizio con un nome differente e solo a classi di amatori che forse
nemmeno avevano conosciuto la loro reale origine. Nel 1972 Kustov invitò anche cinque
giovani attori al Teatro di dalla sua sedia, mentre loro erano immersi negli esigenti esercizi 
fisici del suo passato. Solo due di loro resistettero, Alexei Levinski e Gennadi Bogdanov [18]

 

Fino al momento della sua morte nel 1976, Kustov insegnò loro i cinque études che considerava il nocciolo della biomeccanica, due études ‘a solo’ e tre con partner: “Lancio della pietra”, “Tiro con l’arco”, “Schiaffo in faccia”, “Assalto col pugnale” e“Salto sul petto”. Oggi gli allievi di Kustov, Alexei Levinski e Gennadi Bogdanov, insegnano biomeccanica in Russia così come all’estero. Levinski è anche regista teatrale e Bogdanov è docente di biomeccanica al GITIS.

Il GITIS è strutturato in…
(…)
L’eredità pedagogica di Mejerchol’d al GITIS viene tramandata attraverso due materie fondamentali che lo stesso Mejerchol’d insegnava, sia agli attori che ai registi, sin dal 1921, a Mosca. Registi e attori si fusero nel 1922 in un unico Laboratorio, il GVYTM [19] che fu subito incorporato nel più ampio Istituto del GITIS, la cui attività fù interrotta nel 1938. Le due materie, tutt’ora obbligatorie sia per gli attori che per i registi, sono biomeccanica, insegnata da Gennadi Bogdanov, che oltre agli esercizi lavora specificamente sugli études, e movimento scenico, insegnata da Nikolai Karpov, che lavora specificamente sugli esercizi di biomeccanica e sul loro sviluppo nel movimento scenico.
Gli esercizi, oltre a formare il corpo, mirano, attraverso un “sapere fisico”, alla comprensione e “in-formazione” dei termini e principi biomeccanici. Essi preparano l’allievo agli études che gli verranno insegnati solo a partire dal secondo anno di studio.

L’otkaz
Attraverso una più dettagliata descrizione della pratica degli esercizi e degli études di biomeccanica [20] proviamo a comprendere meglio alcuni termini e principi.
Innanzitutto partiamo dalla scomposizione della frase-azione, che corrisponde al ciclo d’azione del movimento lavorativo preso a modello.
Abbiamo già visto che questo è diviso in tre fasi: intenzione, realizzazione e reazione, che corrispondono alla preparazione del movimento, al suo sviluppo e al suo punto d’arrivo. La preparazione è chiamata otkaz (che significa letteralmente “rifiuto”), la realizzazione, possyl (termine raro in russo, se non inesistente, ma la cui radice, dal verbo imperfettivo possylatz, che significa “inviare”, “tirare”, rimanda al senso di “invio”, lancio, flusso e sviluppo dell’azione), e il punto d’arrivo, tocka (“punto”).
L’otkaz è inteso come un movimento contrario alla direzione in cui si svilupperà il movimento, il caricamento della molla prima di scattare, così come ci carichiamo in basso prima di saltare o solleviamo il pugno prima di sbatterlo sul tavolo.
Essendo l’otkaz per sua natura organico, perché se lo scopo è quello di prepararsi in maniera ottimale all’esecuzione di un’azione (possyl) allora è inutile essere formali, esso conterrà, una volta stabilito precisamente il tipo di azione da compiere, tutte le coordinate di questa azione futura. L’otkaz, quindi, è di grande aiuto per il partner di scena, perché oltre a segnalargli il momento in cui sta per essere fatta l’azione (come il segnale hop del circo), gli indica anche il tipo di azione a venire e la sua direzione.
Classico esempio è quello dell’otkaz dello schiaffo nell’étude lo “Schiaffo”, in cui dall’apertura del braccio destro indietro, sopra la testa, con il palmo della mano bene aperto, è chiaro che sta per arrivare: 1) uno schiaffo, 2) da sinistra verso destra (mettendosi dal punto di vista del futuro schiaffeggiato), 3) dall’alto verso il basso, 4) secondo un ritmo preciso, ritmo stabilito dal “tempo in levare” dell’otkaz (l’“hop”, appunto) a cui corrisponderà quel “tempo in battere” del possyl, e non un altro [21] .
Ma, così come ci “rifiutiamo” di saltare subito un ostacolo (un tavolo, per esempio) senza prima aver preso le misure necessarie a scegliere la giusta rincorsa o la corretta preparazione, allo stesso modo, in classe, ci si allena innanzi tutto a conoscere quell’ostacolo, ad adattarsi ad esso, a trovare la variante ottimale di salto e conseguentemente la preparazione corrispondente. In questa fase si saggia il pericolo attraverso il “controllo” di ogni azione. Controllo che implica un certo “sforzo”, dovuto alla mancanza iniziale di “precisione”.
Questo processo, osservato dall’esterno, risulta molto interessante, così come sono molto interessanti tutte le azioni che, pur dando dei segnali di anticipazione, non svelano subito, raggiungendolo, il loro scopo finale. Sono azioni, cioè, che “rifiutano” l’automatismo dell’esecuzione immediata e lasciano lo spettatore in uno stato di attesa.
Risulta infatti subito evidente che queste azioni hanno uno scopo, che, però, non si vuole subito conseguire proprio perché lo si vuole raggiungere nella maniera migliore, e questa ogni volta può essere diversa. E’ il processo della ricerca mirata ma non ancora conosciuta…
(…)
…non abbandonare mai del tutto questo momento di “rifiuto”, che è rifiuto della passività insita nel puro automatismo, e che necessita di una costante vigilanza e di una continua possibilità di freno.
In ogni istante dobbiamo essere in grado di frenare, perché può sopravvenire un imprevisto, un nuovo ostacolo da superare, e bisogna avere il tempo di prepararci adeguatamente, il tempo di fare il giusto otkaz per superarlo.
Il movimento consapevole è il movimento che ha sempre in sé la possibilità del “freno” (tormoz, in russo). Questo è un principio fondamentale nella biomeccanica.
Essere allenati serve anche a questo. Avere sempre la consapevolezza del nostro centro di gravità, o baricentro, rende più rapida e controllata la frenata, perché l’azione del freno è applicata direttamente sul centro propulsore, sul motore (nel caso dell’automobile, attraverso il cambio, scalando le marce rallentiamo il motore), e non sulla periferia, le gambe (le ruote) [22] .
Avere sempre in sé la possibilità di freno significa che si può sempre frenare fisicamente senza per questo frenare il compito che ci si era assunti prima di trovare l’ostacolo (il tavolo). Bisogna mantenere sempre la prospettiva finale della nostra azione (saltare il tavolo per raggiungere quel punto x) [23] , altrimenti l’otkaz diventa formale, senza uno scopo, non organico.
È importante capire che l’otkaz non deve essere necessariamente nel movimento indietro, cioè nel retrocedere di fronte all’ostacolo per prendere la rincorsa, ma può essere anche nel movimento in avanti, cioè, una volta che il corpo è allenato alle più svariate possibilità di salto, si può fare l’otkaz senza necessariamente interrompere la corsa verso il punto x che vogliamo raggiungere. L’otkaz, quindi, non deve essere necessariamente una frase-azione in senso contrario o meglio che contraddice il senso della frase successiva; può essere solo una momentanea negazione, un dubbio, che non interrompe il filo discorsivo né fa perdere di vista ciò che si vuole dire ma, anzi, lo rende più interessante.
Proviamo infatti, ora, a correre, a trovarci all’improvviso davanti il tavolo da superare, frenare, capire cosa fare, se necessario indietreggiare, e infine superare l’ostacolo, ma senza fare interruzioni, mantenendo la fluidità dell’azione come se questa fosse un’unica frase senza punti all’interno. Fare l’otkaz, “rifiutare”, infatti, non vuol dire bloccarsi o spezzare la prospettiva. Proviamo, ora, a ripetere la frase-azione, come una replica, cercando di allungare, però, il momento dell’otkaz, di rifiuto, per ascoltare meglio il nostro corpo e provare tutte le possibili varianti.
Come abbiamo detto, questa azione di “rifiuto”, per la sua mutabilità coerente perché sempre mirata, ha il potere di tenere in stato di attesa chi osserva e quindi di rendere più espressiva tutta l’azione, dargli un “accento”, al punto che il momento del possyl, cioè il momento dello sviluppo dell’azione stessa, diventa una semplice “coda” dal chiaro significato, perché visibile, ma molto meno interessante [24] .
A questo proposito prendiamo un altro esercizio…
(…)
…mantenendo però la prospettiva, lo scopo del salto, pur senza arrivare mai a farlo veramente [25] .
Il processo, estremamente interessante da vedere dall’esterno, diventa un unico grande otkaz di un organismo umano, formato da tanti individui [26] .
Spesso, dopo la spiegazione dell’otkaz, Karpov domanda: «Hai capito bene quello che ho detto?». Oppure: «È tutto veramente chiaro?». Oppure: «Ti senti bene?». A queste domande si può rispondere solo sì o no. È molto importante sentire che la nascita di una parola, così come di un gesto o di una azione, parte da questo momento di rifiuto (otkaz) della risposta automatica, di rifiuto inizialmente dell’azione stessa (possyl), e poi dell’azione contraria, cioè il rifiuto di non farla, il rifiuto del rifiuto.
Non dire no, è diverso dal dire subito: sì [27] !
Questo momento è il più interessante, molto più della risposta in sé (possyl).
Anche negli esercizi di reattività…
(…)
…Allenarsi a reagire nel minor tempo possibile significa arrivare ad un altissimo grado di concentrazione, di all’erta, pur mantenendo il rilassamento. Rilassamento che è di tutto il corpo, prima dell’esecuzione, nell’attesa del comando; di «tutte e solo le parti non interessate nell’esecuzione», durante la stessa; e, di nuovo, di tutto il corpo, dopo l’esecuzione, per poter reagire velocemente, ma efficacemente, anche a un possibile comando immediatamente successivo [28] .

Realmente, concretamente, il fascino del grande attore è dello stesso genere di quello 
dell’acrobata; risulta dalla stessa composizione di opposti in emozionante equilibrio:
rilassamento e concentrazione. Cioè precisione e controllo [29] .

 

L’equilibrio degli opposti e la resistenza del materiale

È proprio questa composizione di opposti in emozionante equilibrio che ci riporta allo scenario iniziale di perdita d’equilibrio sul ghiaccio del suolo russo e del suo recupero.
Infatti ogni étude di biomeccanica è stato concepito da Mejerchol’d come

[…] una costante danza di opposizioni in un equilibrio precario sempre a rischio, [che] una
volta perso si ristabilisce in una nuova posizione. C’è un costante cambio di peso da una
gamba all’altra e un costante cambio di distribuzione dell’energia e della tensione tra le due
metà del corpo [30].

 

Prendiamo ad esempio le prime 4 frasi-azioni dell’étude dello “Schiaffo”, ovvero la sequenza iniziale del saluto. Proviamo a descrivere ciò che spiega e mostra Bogdanov.

Dalla posizione di stoika, un partner di fronte all’altro, in coppia, si fa all’unisono ilDaktyl, che descriveremo meglio più avanti ma che comunque consiste in un doppio battito di mani. Il Daktyl (–UU, una lunga e due brevi) dà il ritmo ternario (comprendendo anche il tempo “in levare” prima del doppio battito) che dovrà “in-formare” tutta la sequenza dell’étude e che corrisponde al ciclo d’azione. Dopo il tocka del Daktyl, i due attori prendono l’otkaz in basso per saltare in alto e atterrare con i piedi paralleli ma con la gamba sinistra avanti e la destra indietro (possyl). Il peso del corpo deve essere frenato dalle gambe e dagli avambracci, che, con i gomiti fissati lungo i fianchi, salgono e scendono due volte scaricando l’inerzia del movimento globale. Dopo il freno si ritorna nella posizione di stoika con le gambe che sorreggono entrambe il peso del corpo ma non più sulla stessa linea (tocka). Anche questa frase come tutte le frasi-azioni dell’étude deve essere fatta secondo il ritmo ternario del Daktyl eseguito all’inizio. Dopo il tocka di questa seconda frase, la coppia si prepara al saluto.
Entrambi scaricano il peso del corpo sulla gamba sinistra, che è avanti, abbassando il braccio destro in basso per fare l’otkaz e (come se fosse una perdita dell’equilibrio in avanti il cui recupero si trasformi nel movimento successivo) ruotare il corpo e i piedi di 90° verso destra, scaricando il peso sulla gamba destra, che è dietro, e sollevando il gomito destro indietro con la mano all’altezza del petto, pronta per andare successivamente a stringere quella del partner. Per bilanciare il peso che è tutto nella parte destra del corpo, il braccio sinistro e l’anca sinistra devono fare da contrappunto e spingere esternamente verso il partner che sta di lato rispetto
al corpo, ma che il nostro viso, ruotato di 90° a sinistra e anch’esso in contrappunto, deve sempre avere di fronte. Dopo il tocka di questa terza frase, entrambi scaricano ulteriormente il peso (perdendo di nuovo e volutamente l’equilibrio per poi recuperarlo) sulla gamba destra, ruotando il busto ancora un po’ indietro per fare l’otkaz e ruotare tutto il corpo di nuovo di 90° a sinistra ritornando con il bacino frontale rispetto al partner e scaricando il peso sulla gamba sinistra che è avanti. Il braccio sinistroè aperto, dietro il dorso, in contrappunto al braccio destro che è avanti e stringe la mano del partner. Il corpo è come avvitato intorno al bacino, la spalla destra fa da contrappunto alla gamba sinistra e quella sinistra alla gamba d destra. Solo i piedi, le anche e il viso rimangono frontali, il busto e le gambe sono su una stessa superficie ma su facce opposte; cioè ognuna si rivolge verso il semispazio opposto.
Queste composizioni di opposti in emozionante equilibrio, in Fisica Meccanica possono essere tradotte in una formula: F = F1 + F2 + … = 0. Si dice che un corpo è in equilibrio quando la somma vettoriale di tutte le forze che agiscono su di esso è uguale a zero [31] .
Notiamo come l’equazione vettoriale della Fisica meccanica corrisponde a quella della formula biomeccanica: N = A1 + A2.
Mejerchol’d arrivò alla sintesi di una formula matematica che permette di capire l’essenza del lavoro dell’attore e fornisce preziosi spunti di riflessione su cui vale la pena di soffermarsi. Vedremo in seguito come alcuni esercizi di biomeccanica traducano concretamente i fattori matematici di questa formula in ruoli che gli studenti devono impersonare…
(…)

… Mejerchol’d lo chiarisce: l’attore (N) dev’essere analizzato (e deve analizzarsi) in A1
(mente) e A2 (corpo) ma quando ‘comincia la recitazione’ deve agire come N (corpo-mente)
[32] .

 

Ritornando al riscontro nella pratica biomeccanica, notiamo, per esempio, che Bogdanov definisce lo scopo della biomeccanica come l’inizio di un processo di apprendimento.
Il primo passo è imparare il modello seguendo l’insegnante. Il secondo passo è sviluppare una versione personale dell’étude, ma senza cambiarlo.
Il terzo passo è usare nella preparazione di uno spettacolo i principi in esso implicati [33] .
(…)
…Come l’equilibrio, nella “danza delle opposizioni” dell’étude, così la precisione d’esecuzione della partitura di uno spettacolo viene messa continuamente a rischio affinché si abbia la possibilità di riconquistarla sempre di nuovo.
Questo mettere a rischio l’equilibrio, del corpo come delle regole della partitura, è proprio dell’eccentrico, cioè di colui che si pone volutamente fuori del centro dell’equilibrio.

Gli eccentrici – afferma Mejerchol’d – sono individui dalla tecnica stupefacente […]
conoscono le leggi fondamentali della biomeccanica […] in fin dei conti non hanno
nient’altro da fare se non capovolgere le regole [34] .

 

Una volta che si padroneggiano, si può scegliere di applicarle in modo differente.

«L’attore deve imparare ad accendere l’attenzione e giocare con la possibilità di errore, altrimenti la partitura muore nella e della sua precisione», nota Ruffini [35] .
In questo senso la formula dell’attore biomeccanico si adatta perfettamente al processo dello spettacolo inteso come N, composto dall’esecuzione della partitura fissata nelle prove, il materiale, il cui equilibrio può essere rimesso in gioco durante ogni spettacolo in maniera diversa a seconda degli imprevisti, a seconda cioè della resistenza che questo materiale può opporre nell’atto della sua ri-esecuzione, della sua ri-organizzazione da parte dell’elemento organizzatore, che è la compagnia di attori.
È chiaro che materiale dello spettacolo può essere considerato…
(…)
…«L’attore che improvvisa dentro la partitura non sa cosa farà, ma saprà cosa fare in rapporto ai segni registrati dall’attenzione», in rapporto alla resistenza del materiale (imprevisti nella partitura, nel corpo dell’attore, nell’interazione col partner, con lo spazio scenico, gli oggetti, il pubblico).
L’attore biomeccanico si allena quotidianamente per questo. Lui conosce il suo materiale di lavoro, lo ha anche fissato durante le prove, ma ciò nonostante, non lo deve assumere come conosciuto, altrimenti diventa «zavorra […] di qui la necessità di porsi, pur sapendo, in condizione di ignoranza: ignoranza dotta, appunto». Il risultato della formula biomeccanica, N, il corpo-mente, «è la dotta ignoranza nell’azione. Consiste in un'assoluta presenza nel presente, che non anticipa il futuro […] ma lo padroneggia nell’attimo in cui si fa presente […]» [36] .

Ma torniamo all’applicazione nella pratica degli esercizi e degli études di questa danza di opposizioni, di questo equilibrio “emozionante”, tradotto dalla formula biomeccanica.
Per spiegare il possyl, Karpov adotta spesso questo esercizio da fare in coppia. Uno, fermo, riceve il partner che gli viene incontro, stabilisce il contatto e, cadendo morbidamente (cioè col “freno”) insieme a lui, sviluppa la sua spinta e la sua azione (possyl). In questa specie di “lotta” egli rappresenta il materiale (A2) e l’altro colui che lo organizza (A1).
A2, come abbiamo già constatato, non è solo passivo, non deve, cioè, unicamente adattarsi alla spinta propulsiva di A1, ma deve, anzi, opporre una certa “resistenza”.
È proprio attraverso questa resistenza che sarà possibile “ascoltarsi” l’un l’altro, e collaborare “frenando” nei momenti difficili (quando per esempio si arriva al contatto col suolo). È proprio da questa azione leggermente “frenata”, da questo non “rifiuto” dei momenti difficili, che è un “rifiuto” di correre subito verso il punto finale, un rifiuto di non sviluppare attentamente il possyl, che nasce l’organicità della coppia (A1+A2), la precisione sempre ritrovata (“attiva”) dell’esecuzione, e, soprattutto, l’alta espressività dell’intera frase-azione che scorre fluida e intensa fino al tocka, il punto in cui si esaurisce la spinta di A1 [37] .
Anche il movimento più semplice deve avere all’interno una difficoltà da superare.
È il principio recitativo dell’“ostacolo”.
Infatti provi, ora, una coppia, a ripetere l’esercizio della “lotta”, cercando di memorizzare la sensazione, l’energia particolare di quel processo. Subito dopo, lo studente che rappresentava A1 fa un’azione molto semplice, per esempio va incontro ad A2 e gli fa una carezza, cercando di ripetere lo stesso processo della “lotta”, con lo stesso “rifiuto” di correre subito al risultato, con lo stesso freno e ascolto dei momenti difficili, di tutte le possibili “resistenze” del partner (scelto per definizione come A2), ma anche di tutte le proprie “resistenze” (“proprie” nel senso del proprio strumento, A2), di quelle del pavimento che ha sotto ai piedi e di tutte le possibili varianti di A2 già analizzate [38] .
L’ostacolo aiuta a stravolgere l’automatismo di un’azione quotidiana e gli dà uno sviluppo interessante sia per l’attore che è costretto ad aumentare la sua attenzione e sia per lo spettatore che lo osserva [39] .
L’esercizio della “lotta” ci riporta concretamente al nocciolo della biomeccanica…

…È attraverso una lotta di forze contrapposte che la forma arriverà al suo più alto grado
d’espressività, troverà la sua ‘acutezza’. La padronanza dello spazio-tempo scenico dà
forma, condensa, ‘versifica’ il discorso dell’attore gli dà la possibilità di pensare come un
poeta in maniera ampia e acuta allo stesso tempo [40] .
(…)

 

E infine è lo stesso Mejerchol’d che afferma: «Ogni forma d’arte si fonda sull’autolimitazione. L’arte è sempre e prima di tutto una lotta con il materiale» [41] .

Il ritmo del pensiero in azione


Ma torniamo alla pratica degli esercizi.
Come abbiamo già notato, la scomposizione ternaria del ciclo d’azione corrisponde a quella della frase-azione.
È la stessa scomposizione che troviamo nel principio di Zeami dello jo-ha-kyu, e che ritroviamo nella micro-partitura del Daktyl [42] .
Bogdanov fa fare un esercizio che è molto simile agli esercizi che si fanno nel Teatro Nô per la spiegazione del principio dello dello jo-ha-kyu applicato al movimento.
La maestra trattiene l’allieva per la cintura (jo = trattenere) ed improvvisamente la lascia (ha = rompere, spezzare). L’allieva

[…] fatica a compiere i primi passi, piega le ginocchia, preme le piante dei piedi sul terreno,
inclina leggermente il busto, poi, abbandonata a se stessa, scatta via [kyu = rapidità],
avanza velocemente fino al limite prefissato, davanti al quale si arresta come sull’orlo di un
burrone che improvvisamente si apra a pochi centimetri dai suoi piedi [43] .

 

Bogdanov chiede agli allievi di…
(…)
… In questo caso il tocka corrisponde ad una posizione dinamica, immobile ma con un movimento interno in cui l’energia è sospesa. [44]
Ora osserviamo come questo principio ternario si incarni nella micro-partitura di movimenti del Daktyl.
Il Daktyl consiste in un doppio battito di mani, ma racchiude in sé “condensati” tutti i principi basilari della biomeccanica, dal coinvolgimento di tutto il corpo controllato dal centro, alla scomposizione interna del ciclo d’azione fluidificata secondo un ritmo definito che corrisponde a quello metrico del dattilo greco da cui prende il nome.
Esso apre e chiude ogni lezione di biomeccanica, ogni étude, e rappresenta un momento di piena concentrazione, un breve ripasso fisico-mentale di tutti i principi biomeccanici e la scelta di un ritmo con il quale in-formare tutta la sequenza dell’étude.
Fatto in gruppo, infatti, stabilisce un momento di esatta coordinazione e di prontezza dell’insieme dei partecipanti.
Prima dell’esecuzione del Daktyl ognuno deve assumere la posizione di stoika.
Bogdanov chiede una prima volta “attenzione”, comunica il compito da eseguire:“Daktyl”, chiede per la seconda volta “attenzione” e tutti inclinano leggermente il corpo in avanti poggiando sulle punte dei piedi. È il momento più carico di tensione.
Al comando hop dell’insegnante, tutti contemporaneamente preparano l’otkaz, cioè si caricano con tutto il corpo come se volessero spiccare un salto in alto e poi si ergono con le braccia e le mani tese verso un punto in alto. L’otkaz deve essere fatto da tutti all’unisono, precisamente al suono lungo “Iiiii” emesso da Bogdanov, che in russo corrisponde alla nostra congiunzione “e”, in musica al tempo in “levare”, in linguaggio circense all’ hop, e nel ritmo del dattilo alla lunga iniziale.
L’insegnante conta “ras!”, che corrisponde al nostro “uno”, in musica al tempo in“battere”, nel ritmo del dattilo alla prima breve, e tutti fanno il possyl, ovvero ridiscendono con le mani puntate verso il suolo in modo da incontrarsi e fare un primo battito in basso. Nel frattempo le gambe piegandosi frenano la ridiscesa del corpo, che come tale prepara il caricamento (come un otkaz interno al possyl) per una nuova salita verso l’alto. Questa volta, però, i gomiti rimangono lungo i fianchi e salgono solo gli avambracci. Nella seconda ridiscesa le mani, sempre rivolte verso il basso, scaricano di nuovo l’inerzia del movimento in un secondo battito di mani.
In quell’istante l’insegnante avrà detto “dva!”, che corrisponde al nostro “due”, alla seconda breve del dattilo. È lì che in teoria termina il possyl e comincia il tocka, cioè la propagazione del “battere”, l’eco del gong, della campana che risuona, l’“irradiamento”di tutta l’azione svolta. Tutti infatti continueranno a frenare il movimento scaricandolo soprattutto nelle gambe, per poi risalire lentamente nella posizione eretta di partenza, la stoika, continuando a tenere il dva nel tocka - punto conclusivo.
(…)
… È come se ci fosse, per esempio, un otkaz dell’otkaz, un possyl dell’otkaz e untocka dell’otkaz, per poi passare all’otkaz del possyl, al possyl del possyl e al tocka del possyl, e così via scomponendo anche il tocka e continuando all’infinito.
Chiaramente tutti questi sono solo frammenti virtuali su cui l’attenzione dell’attore può appoggiarsi senza necessariamente spezzare la fluidità della frase, infatti ogni micro-tocka di una micro-frase corrisponde al micro-otkaz della micro-frase successiva.
Come abbiamo già detto, il processo è analogo a quello di un treno che va da Roma a Firenze senza fermarsi nelle stazioni intermedie pur passandoci e vedendole chiaramente.
Lo stesso avviene ritornando alla grandezza delle frasi intere. Per esempio consideriamo una prima frase quella di fare un salto in alto e atterrare, e una seconda frase quella di fare un altro salto in alto e atterrare di nuovo. Queste sarebbero due frasi se fossero separate da un chiaro punto d’immobilità (tocka reale) che dividesse la prima dalla seconda, ma se volessimo unirle in unica frase allora dovremmo trasformare l’atterraggio frenato del primo salto (tocka virtuale) nel caricamento del corpo per fare il secondo salto (otkaz virtuale). Il tutto allora diventerebbe un’unica frase ininterrotta, un “fluire per salti”, un unico processo creativo. Karpov ricorda sempre un’affermazione di Stanislavskij, cioè che «l’arte comincia dove nasce la linea ininterrotta del movimento», e questo è un processo fisico e mentale [45] .
La stessa cosa avviene nel Teatro Nô per la scomposizione del jo-ha-kyu, questo infattiè un processo ciclico.

Ci rendiamo conto che il jo-ha-kyu non è propriamente una struttura ritmica, ma un pattern
del pensiero e dell’azione. 
A livello macroscopico è una chiara articolazione tecnica, ma superata una certa soglia 
diventa ritmo del pensare […] comportamento mentale che gli [all’attore permette di 
variare ogni volta in maniera impercettibile il suo modo giapponese] di essere nell’azione. 
pensiero che incide e scolpisce il tempo, cioè diventa ritmo. 
L’azione è rigorosamente codificata nella sua dettagliata partitura. Ma vi è una sorta di
sotto-partitura lungo la quale l’attore improvvisa. Non muta la forma; lo stesso disegno 
dei movimenti è eseguito inventando gli innumerevoli rapporti jo-ha-kyu, ogni volta come
se fosse la prima volta [46] .

 

Ripetere lo stesso disegno “come se fosse la prima volta”, “improvvisare nella partitura”, “lottare con il materiale”, eccoci di nuovo all’essenza del teatro, a quel N che deve essere il risultato della danza delle opposizioni dell’eccentrico, di colui che può vivere in un equilibrio precario che è “emozionante” perché sempre a rischio.
Alla fine l’attore biomeccanico allenato a ripartire il proprio materiale nello spazio e nel tempo, che riesce a “pensare” con il corpo con un pensiero che “diventa ritmo”, che concepisce il suo movimento come una frase musicale, che “sa guardare allo spettacolo come qualcosa in continuo movimento, in progressione costante” al punto che quando entra in scena sa che non deve solo pronunciare la battuta “ma inserirsi e continuare il movimento musicale” [47] , che come nel jazz sa “giocare con le modulazioni”, che come personaggio, al pari di un tema melodico, si sviluppa e si intreccia con gli altri in diverse forme armoniche e contrappuntistiche all’interno della “sinfonia” dello spettacolo; alla fine questo attore assurge alla stessa altezza del musicista, considerando Mejerchol’d la musica come l’arte più evoluta in assoluto e a cui tutte le altre arti devono tendere.
Attraverso la storia della sua pedagogia teatrale, Mejerchol’d ha scelto varie metafore per indicare il lavoro dell’attore: dal saltimbanco all’acrobata, dall’animale (felino) all’uomo-macchina della biomeccanica, fino all’attore musico degli anni Trenta, che fonde tutta l’esperienza pedagogica con quella altrettanto fertile di regista, e lo riporta alla concezione, comune ai grandi artisti/teorici d’inizio secolo, della musica come archetipo di tutte le arti.

[17] Cfr. J. RISUM, The Sporting Acrobat. Meyerhold’s Biomechanics, in «Mime Journal», 1996, p. 22.
[18] Ivi, pp. 42-3.
[19] G.Vy.T.M.: Gosudarstvennye vysie teatral’
[20] Esercizi ed études che ho avuto la fortuna di apprendere nel 1996 e 1997 in Italia ma soprattutto nell’a.a. 1997/98 al GITIS di Mosca, e per i quali colgo l’occasione di ringraziare Gennadi Bogdanov e Nikolai Karpov, che hanno dato un apporto sostanziale allo sviluppo del mio lavoro attuale di regista e insegnante. Per un ulteriore descrizione di esercizi ed études e per un approfondimento storico su Mejerchol’d e la biomeccanica, cfr. C. Spadola, La Biomeccanica di Mejerchol’d e i suoi recenti sviluppi al GITIS di Mosca, tesi di laurea discussa all’Università di Roma “la Sapienza” nell’a.a. 1995/96, relatore Prof. Luciano Mariti, correlatore Prof. Elena Tamburini.
[21] «Il principio fondamentale dell’otkaz che proviene dalla ricerca sulla Commedia dell’Arte (1914)– e si congiunge a ciò che ugenio Barba chiama nella sua antropologia teatrale, “il principio dei contrari”.
L’otkaz (letteralmente “rifiuto”) è l’indicazione plastica e dinamica di una separazione dal movimento che precede e la preparazione dell’esercizio seguente, è uno slancio, un impulso, un trampolino, e al tempo stesso un segnale al o ai compagni. Nell’insieme della recitazione, è un momento di breve durata, in controsenso, che si oppone al movimento generale o alla direzione di questo movimento»
(B. PICON VALLIN, Il lavoro dell’attore in Mejerchol’d. Studi e materiali, in «Teatro e Storia», 3, 1996, p. 94-5.
[22] La Picon Vallin, parlando dell’otkaz, dice che: «È possibile ricollegarlo al concetto di frenata (tormoz), preso in prestito dalla meccanica, che designa ogni tipo di rallentamento dell’azione prima di un’esplosione suscitata o meno da un ostacolo esterno sul tracciato di un flusso di energia o di un movimento orientato»
(B. PICON VALLIN, Il lavoro… cit., p. 95).
[23] Il compito, “l’io voglio” stanislavskiano. Questa prospettiva vedremo che corrisponde al possyl dell’azione.
[24] In questo senso Alfred Hitchcok era un maestro dell’otkaz preso come principio estetico. Lo stesso Mejerchol’d lo usava per parlare di recitazione associandolo al termine di “prerecitazione” (predigra): «La prerecitazione è precisamente un trampolino, un momento di tensione che si risolve nella recitazione.
La recitazione è una coda [termine musicale, in italiano nel testo], mentre la prerecitazione è l’elemento presente che si accumula, si sviluppa e attende di risolversi», V. MEYERHOLD, Ecrits sur le théâtre.
Tome II. 1917-1929
, traduction, préface et notes de B. Picon-Vallin, Lausanne, La Cité-L’Age d’Homme, 1975, p. 153. Mentre a p. 141 leggiamo: «Non è la recitazione in quanto tale che ci interessa, ma la predigra, la prerecitazione, perché l’attesa suscita nello spettatore una tensione superiore a quella che provoca in lui qualcosa che ha già avuto o predigerito. Questo non è teatro. Lo spettatore vuole tuffarsi nelle attese dell’azione».
[25] «L’attore/danzatore deve compiere l’azione negandola. Fare un’azione negandola vuol dire inventare al suo interno un’infinità di variazioni. Questo obbliga ad essere al cento per cento nell’azione, così che la successiva può nascere come una sorpresa per lo spettatore e per se stessi» (E. BARBA, La canoa di carta…,
cit., p. 233).
[26] «Nella messinscena de L’ispettore di Gogol’, Mejerchol’d trasportò il principio dell’assorbimento dell’azione dal livello d’organizzazione che riguarda la recitazione del singolo attore a quello che regola le relazioni fra i personaggi. Sistemò i trenta e più personaggi su una piattaforma di dimensioni ridotte (m. 3,55 per 4,55) con una pendenza tale che era difficile mantenersi in equilibrio. Anche i mobili, un divano e un tavolo, erano inclinati. In questo spazio ristretto creò un ambiente sociale formicolante, attraverso un flusso ininterrotto di gesti, atteggiamenti, ‘frenaggi di ritmo’, immobilità». Ivi, p. 84.
[27] Come abbiamo visto, anche Tret’jakov e Ejzenštejn ripropongono l’otkaz mejerchol’diano. «Nelle sue lezioni di regia, tenute al VGIK verso la metà degli anni ’30, Ejzenštejn attribuirà all’otkaz un valore più generale.
Questo procedimento – che è poi alla base dello stesso concetto di attrazione come conflitto tra il movimento razionale [atto volitivo] e il movimento riflesso – sarà teorizzato come dinamica presente, consciamente e inconsciamente, in ogni atto fisico e mentale, come organizzazione dialettica del materiale teatrale e cinematografico, come negazione della negazione del materialismo dialettico». C. SOLIVETTI, Presentazione a S. Tret’jakov e S. Ejzenštejn, Movimenti espressivi, in «Stilb», 2, 1981, p. 27 (è la prima traduzione del
saggio in Italia).
[28] «Stanislavkij ha capito ciò che solo a posteriori può sembrare ovvio. Ha capito che il rilassamento del grande attore non è un rilassamento generale, ma è il rilassamento di tutte e solo le parti del corpo non impegnate nell’azione; e reciprocamente, la concentrazione del grande attore è concentrazione tutta e solo sulle azioni da compiere, e quindi sulle parti del corpo implicate in quelle azioni. Quanto più la concentrazione– nei termini sopra chiariti – è forte ed efficace, tanto più la tensione può focalizzarsi sulle parti del corpo coinvolte nell’azione, permettendo alle altre parti di rilassarsi. E quanto più il corpo è libero da tensioni improprie, cioè quanto più è rilassato, tanto più la concentrazione può agire efficacemente sulle parti interessate all’azione».
Ruffini aggiunge nella nota: «Va precisato, a scanso di pericolosi fraintendimenti, che il rilassamento delle parti del corpo non impegnate nell’azione non è torpore, o assenza: è solo disimpegno dalla specifica azione, cioè più esattamente non interferenza. Analogo discorso deve essere fatto per la concentrazione. L’azione, in condizioni di rilassamento e concentrazione, è un’azione compiuta da tutto il corpo, ma non è un’azione dispersa in tutto il corpo». F. Ruffini, Precisione… cit., pp. 221-22.
[29] Ivi, p. 222.
[30] B. PICON-VALLIN, Meyerhold... cit., p. 111. Lo stesso “balletto di energia” in azione che troviamo nel balletto classico, nella scherma, nell’atletica leggera, materie di studio comuni nei programmi delle scuole di Dalcroze, Mejerchol’d, Copeau e Dullin, cfr. E. Barba – Marco De Marinis Due lettere…, cit., pp. 241-242.
[31] Quando le forze vettoriali si oppongono, la loro somma è equivalente alla somma algebrica di grandezze scalari di segno opposto. Per cui, in realtà, la somma diventa una differenza. Infatti, il risultato di due forze che si oppongono è uguale alla I forza diminuita, frenata (e, in caso di vettori che hanno diverse direzioni, deviata) dalla resistenza della II forza che è opposta e quindi di segno algebrico opposto. Se le due forze si equivalgono il risultato si annulla e si ha l’equilibrio, altrimenti si ha il disequilibrio perché prevale una forza sull’altra.
[32] Ivi, p. 231, nota 16.
[33] È lo stesso processo d’apprendimento in tre fasi che si trova nel Teatro Nô. Cfr. E. Barba, La canoa di carta..., cit., p. 201, dove leggiamo: «Seguendo il percorso del kata [il disegno dei movimenti] il pensiero cerca come evadere dalla fissità della forma che gli oppone resistenza. Come dilatarla senza farla esplodere.
Un comportamento elaborato e fissato tecnicamente diventa un mezzo di scoperta personale».
Afferma Craig: «L’arte più alta è quella che nasconde ogni artificio e non reca più traccia dell’artefice»
(in E.G. CRAIG, Il mio teatro, a cura di F. Marotti, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 50). Affermazione che riassume anche la posizione di Mejerchol’d sull’attore “eccentrico” che noteremo tra poco.
[34] Secondo corso di Mejerchol’d alla Facoltà d’attori del GEKTEMAS, gennaio 1929, in B. Picon-Vallin, Meyerhold, cit., p. 119.
[35] F. Ruffini, Precisione… cit., p. 228.
[36] Ivi, p. 231.
[37] «È la precisione dei cambi tonici e dei salti d’energia del danzatore/attore che permette allo spettatore di vivere l’esperienza di un’esperienza e di proiettare una molteplicità di interpretazioni. In questa costruzione del testo/tessuto, anche gli ‘errori’ o le incertezze che spuntano all’improvviso possono servirci quanto le ‘certezze’ che cerchiamo coscientemente. Bisogna sviluppare la capacità di integrare al testo logico-sensoriale gli ‘errori’, i malintesi, i commenti/reazioni fortuiti» (E. BARBA, La canoa di carta..., cit., p. 238).
[38] È un porcesso simile a quello di “assorbimento in ritmo” preciso della “performance acrobatica”, descritto ripetutamente da V.O. Toporkov in Stanislavskij alle prove. Gli ultimi anni, Milano, Ubulibri, 1991, e analizzato in F. Ruffini, Teatro e boxe, cit., pp. 132-39. Cfr. anche il cap. X e pp. 161-63.
[39] A questo proposito sono molto utili gli esercizi che propone Karpov di “azione fisica con ostacolo”. Una semplice azione quotidiana che si è già “memorizzata” nella sua variante ottimale (per esempio: come io mi tolgo “solitamente” le lenti a contatto) al punto da poterla fare anche senza gli oggetti reali (esercizi di“azione fisica senza oggetti”) deve essere ripetuta con l’aggiunta di un ostacolo (per esempio il disturbo di una zanzara). L’ostacolo ottimale è quello “parallelo” perché crea costantemente un conflitto da superare e perciò dà molto risalto all’espressività di tutte le azioni; altrimenti l’ostacolo si definisce “passivo”.
Questi esercizi sono di origine stanislavskiana ma sono sviluppati in “chiave” biomeccanica, nel senso che vi si applicano termini e principi biomeccanici.
[40] B. PICON-VALLIN, MEyerhold, cit., p.123.
[41] V. Mejerchol’d, L’attore biomeccanico, cit., p. 78.
[42] Cfr. J. RISUM, The Sporting… cit., p. 23.
[43] È la descrizione che fa Katzuko Azuma dell’insegnamento della sua maestra, e che Eugenio Barba riporta in La corsa dei contrari, Milano, Feltrinelli, 1981, p. 88.
[44] Corrisponde cioè al sats degli attori dell’Odin e alla sintetica ed efficace indicazione “movement stop, inside no stop” dell’attore del Teatro Nô citato da Barba. E. BARBA, La canoa di carta..., cit., p. 92.
[45]Il lavoro... cit., pp. 310, 431. Cfr anche F. Ruffini, Teatro e boxe, cit., pp. 80-5.
[46] E. BARBA, La canoa di carta..., cit., p. 108.
[47] V.E. Mejerchol’d, Frammenti, in Id., L’attore biomeccanico, cit., p. 115.

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